I VOLTI DEL RISCATTO

Jorit, l’arte che illumina le periferie

di Marika Ikonomu
foto Irene Starita

«Io qui ci abito, ci vivo ed è la mia vita. Ma quando tornavo a casa, dopo qualche giorno fuori, giravo l’angolo e mi trovavo questi palazzoni grigi davanti, avevo un dolore al petto». Rosaria ha 52 anni e ha sempre vissuto a San Giovanni a Teduccio, un quartiere nella periferia est di Napoli. «Prima di queste opere, questi palazzi erano osceni, non si potevano guardare», dice Rosaria guardando i due murales che oggi occupano le facciate dell’ala ovest del “Bronx”.

 

Dal 2018, le quattro facciate dei palazzi hanno il colore del riscatto: Diego Armando Maradona, Niccolò, Ernesto Che Guevara, uomo e soldato, vigilano sugli abitanti delle case popolari dell’ex Taverna del Ferro. Volti enormi firmati Jorit Agoch, l’artista napoletano che dipinge con le bombolette spray conosciuto in tutto il mondo. Segni distintivi dei suoi murales, le cicatrici rosse sulle guance. «Io sono innamorata di queste opere. I turisti vengono a vederle. Ogni tanto li incontro dove c’è Maradona e dico: “Venite dall’altra parte che c’è Che Guevara!”», racconta Rosaria ridendo. Parla con passione del posto in cui vive, ma non nasconde la fatica quotidiana per rendere dignitose le case popolari di San Giovanni, dimenticate dalle istituzioni, in cui vivono 360 famiglie. I suoi due Che Guevara però hanno cambiato l’aspetto e l’impatto di questo luogo e per Rosaria è un orgoglio che si è persino tatuata sul braccio destro: Ernesto uomo.

Niccolò e Diego Armando Maradona (dios es umano), San Giovanni a Teduccio (Napoli)

Le case popolari dell’ex Taverna del Ferro sono chiamate “il Bronx”, ma gli abitanti e il Comitato di lotta, di cui Rosaria fa parte ed è una dei membri più attivi, stanno cercando di eliminare questa nomea e di renderlo un luogo più vivibile per le oltre mille persone che lo abitano. «Anche grazie a questi murales siamo riusciti a portare le problematiche di Taverna del Ferro a livello nazionale», spiega un altro attivista del comitato, Salvatore. San Giovanni, come racconta chi ci vive, continua a peggiorare in termini di vivibilità, soprattutto per le questioni ambientali. «È diventato lo scarto, sembra che non sia Napoli!», denunciano.

 

I due complessi, costruiti dopo il terremoto del 1980, dovevano essere case popolari temporanee, ma molte persone ci vivono da quarant’anni. L’idea era di riprodurre le vie, molto strette, del capoluogo campano. La via che divide i due palazzi di otto piani è infatti stretta e buia. Salvatore spiega che «fino a dieci anni fa circa, c’erano ponti comunicanti tra i due palazzi e tutte le case erano collegate tra loro. Era diventata una piazza di spaccio, e quei collegamenti permettevano la fuga». «Le case sono in stato di abbandono, piove in casa della gente», denuncia il comitato. Ma i dipinti hanno cambiato il volto dei palazzi e favorito i finanziamenti da parte delle istituzioni. Sono già in corso alcuni interventi di recupero e sono stati stanziati fondi per il rifacimento dei tetti e per un progetto di abbattimento e ricostruzione, inserito tra le opere del Pnrr.

 

Le ragazze e i ragazzi del quartiere, dice Rosaria, «si sono innamorati di Jorit», che nei 40 giorni in cui ha dipinto i due Che Guevara ha vissuto a pieno quella realtà, spiegando loro la storia che si nasconde dietro l’opera. «Portare tematiche profonde nella realtà chiusa di un quartiere o di un rione» è l’obiettivo dell’arte impegnata di Jorit, racconta l’artista.

Che Guevara uomo e soldato, San Giovanni a Teduccio (Napoli)

Nella maggior parte dei casi è lui a scegliere chi rappresentare, «in base al valore e al messaggio che determinate figure storiche o contemporanee possono trasmettere», spiega Jorit. «Il volto è la parte figurativa che comunica in modo diretto e rapido», dice. «Non ci si può girare dall’altra parte di fronte a un volto. Credo sia un’arma comunicativa molto potente, soprattutto quando i volti diffondono messaggi e ideali». A San Giovanni, infatti, gli abitanti hanno scoperto chi sarebbe stato rappresentato solo a opera iniziata, a eccezione di un murale, quello che raffigura Niccolò, un ragazzo con autismo. «L’ha fatto fare il padre del ragazzo. È un messaggio contro il bullismo», spiega Enrico, un signore di mezza età che vive nel quartiere.

 

Nonostante gli appelli del comitato, il comune non ha contribuito in nessun modo alle opere di Jorit. È partita così una raccolta fondi dal basso: «Ci mettemmo con un banchetto e parteciparono tutti, anche gli abitanti di questi palazzi. Davano uno o due euro, quello che potevano», racconta Rosaria. Il comitato ha trovato poi degli sponsor che hanno messo a disposizione una piattaforma, molto costosa e indispensabile per le opere di Jorit, data la loro dimensione.

Il 31enne Jorit Agoch è nato e cresciuto a Quarto, un comune vicino a Napoli. Di padre napoletano e madre olandese, ha iniziato a fare graffiti a 13 anni a Quarto Officina, facendo tag sui muri e sui treni. «Poi mi sono concentrato più sui volti e ho cominciato a farli sempre più grandi», racconta Jorit, che ha «sempre avuto la passione per il disegno, fin da bambino».

 

Ha poi frequentato l’Accademia di Belle Arti di Napoli e studiato alla scuola internazionale d’arte Tinga Tinga di Dar Es Salaam, in Tanzania, dove ha affinato la sua tecnica. Il primo grande volto dipinto nel capoluogo campano è quello di Ael, che in lingua romanì significa «colei che guarda il cielo». Una ragazza rom, dallo sguardo forte, munita di libri, di una matita e inizialmente di uno strummolo, una trottola, oggi cancellata, così come sono stati cancellati alcuni libri. «Ael. Tutt’ egual song’ e creature», è il titolo dell’opera di Ponticelli, realizzata nell’ambito della campagna nazionale «Accendi la mente, spegni i pregiudizi». Proprio a Ponticelli nel 2008 un rogo doloso distrusse il campo rom in cui vivevano circa 1.500 persone.

Ael. Tutt’ egual song’ e creature, Ponticelli (Napoli)

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Video interviste di Marika Ikonomu, musiche di Lamberto Macchi

di Irene Starita, Musiche di Sinnermann

Da Ponticelli a Forcella, quartiere popolare nel centro di Napoli, dove ha dipinto San Gennaro, patrono della città, con il volto umano, di un uomo comune. La maggior parte delle opere sono a Napoli: Angela Davis e Pier Paolo Pasolini a Scampia, Ilaria Cucchi ad Arenella, Davide Bifolco nel rione Traiano, Salvador Allende e Martin Luther King a Barra, e molti altri. In Italia – a Roma, Firenze, Diamante (in provincia di Cosenza) – e fuori dall’Italia – in Argentina, Bolivia, Cile, Tanzania, Cina – ha portato volti simbolo di battaglie per i diritti, civili e sociali. Chi viene rappresentato non ha necessariamente un legame di sangue con il luogo: «Mi piace decontestualizzare», spiega l’artista, che ha dipinto ad esempio il volto di Martin Luther King a Barra, un quartiere di periferia di Napoli, perché «certi ideali e certi valori sono universali». E sottolinea: «Portare dei valori alti, portare Pasolini a Scampia, rafforza ancora di più il messaggio che voglio trasmettere».

Davide Bifolco, Traiano (Napoli)

Messaggi che comunica non solo attraverso i volti ma anche attraverso le scritte presenti sullo sfondo dei murales e gli elementi o parole nascoste sul viso, spesso all’interno dell’iride. L’idea racchiusa nelle sue opere, spiega l’artista, «è di cominciare tutti quanti dagli stessi blocchi di partenza. Che tutti possano avere gli stessi diritti e le stesse possibilità. Un mondo che metta al primo posto la collettività».
E ad accomunare ideali, valori e volti, il tratto distintivo dell’artista: tutte le persone rappresentate hanno cicatrici rosse sulle guance, simbolo «di appartenenza alla tribù umana, un concetto di fratellanza e di radici», dice Jorit, la cui tribù ha preso il nome di Human Tribe. Segni che rimandano a riti iniziatici africani che rappresentano il passaggio dall’infanzia all’età adulta e l’ingresso dell’individuo nella tribù. Così anche l’artista di Quarto ha il suo tratto distintivo sulla guancia destra: il suo passaggio all’età adulta.

Ilaria Cucchi, Arenella (Napoli)

Patrizio Oliva, Nando De Napoli, Carmelo Imbriani, Antonietta De Martino, Nando Gentile, Quartiere Direzionale (Napoli)
Ogni murale ha una sua storia. Entra a far parte del paesaggio urbano, lo modifica, lo suggestiona. Pone delle domande a chi lo guarda, a chi ci vive e a chi è di passaggio. E aiuta a coltivare la memoria, come succede al Tufello, un quartiere popolare di Roma con una storia politica definita e un dramma diventato simbolo. Sulla parete di una scuola nella via principale del quartiere, Jorit ha dipinto Valerio Verbano, un ragazzo ucciso il 22 febbraio 1980 a soli 19 anni. L’assassinio fu rivendicato dai Nuclei armati rivoluzionari, un’organizzazione terroristica italiana di ispirazione neofascista. Valerio Verbano era impegnato politicamente, stava portando avanti una serie di indagini e raccogliendo informazioni sull’ambiente dell’estrema destra romana. Dopo quarant’anni non è stato individuato alcun colpevole dell’omicidio e il quartiere lo ricorda ogni 22 febbraio. «Il murale fa parte del lavoro che facciamo sulla memoria di Valerio, di Carla e di Sardo, i suoi genitori», spiega Giulio della Palestra popolare del Tufello, una realtà sociale intitolata appunto a Valerio Verbano che svolge un importante lavoro nel quartiere. «Ogni anno proviamo ad aggiornare quella memoria e, per farlo, proviamo a parlare di temi d’attualità. Ci chiediamo: quella memoria oggi cosa rappresenta? Come si trasforma e come vive effettivamente?», continua Giulio, che sottolinea: «Siamo sempre stati convinti che raccontare esclusivamente la memoria per portare la bandiera della storia è importante ma non è sufficiente. Dobbiamo portarla nel presente».

Valerio Verbano, Tufello (Roma)

L’opera per Valerio Verbano è stata fatta per il quarantennale dalla morte ed entra a far parte dell’insieme di opere dedicate a questa storia, condivisa e molto sentita non solo nel quartiere ma nell’intera città. «Dovevamo fare qualcosa di un po’ più grande e importante e lasciare un segno», dice Giulio. L’amministrazione del III municipio di Roma ha contribuito alla realizzazione, perché «attenta a coltivare la memoria di Valerio Verbano», ma la richiesta è arrivata dal basso.
È la spinta dal basso che porta l’ente pubblico a finanziare le opere. «La richiesta parte sempre dai comitati, dalle associazioni, dalle persone del quartiere», spiega Jorit. A San Giovanni a Teduccio invece le istituzioni hanno abbandonato le opere, denunciano i cittadini. «Anche il New York Times ha parlato dei murales di San Giovanni», dice Salvatore, del comitato dell’ex Taverna del Ferro. «Basterebbero piccole azioni da parte del comune. Quattro fari per illuminarle di notte, curare le aiuole sottostanti, controllare lo scarico di spazzatura. Servono poche risorse, ma molta attenzione. Puoi avere l’opera d’arte, ma se non ti costruisci l’interesse, non vai da nessuna parte», continua. Opere che rimangono patrimonio del territorio e che hanno contribuito a portare alla luce molte istanze. «Napoli est oggi è nell’agenda politica del comune e della regione», ricorda il comitato.

 

Enrico, in assenza di contributi pubblici, ha fatto una colletta per sistemare il murale di Diego Armando Maradona, il più grande al mondo raffigurante il calciatore argentino. È Enrico che si prende cura della piazzetta, che ha preso il nome del calciatore, perché «Maradona è come noi», dice, riferendosi al riscatto di un uomo e di un quartiere.

© Marika Ikonomu, Irene Starita per Nebula Magazine